Arquata del Tronto, il ricordo di una giornata di fine inverno nel paese che era

La Via Salaria è una delle più belle strade d’Italia, e non sono il solo a pensarlo. Almeno da quel tratto che da Ascoli Piceno si inoltra nei Sibillini fino ad arrivare al confine con l’Umbria, dopo che la superstrada attrezzata lascia spazio a una strada statale stretta e compressa in un canyon scavato dalle acque. Lì, dove i romani transitarono alla volta dell’Adriatico. Lì, dove per secoli era stata tracciata la linea di confine fra lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli, per una comodità geografica. Insomma, una via di collegamento in una terra di confine. E allora si spiegano i tanti castelli e le rocche sparse sui due versanti alla destra e alla sinistra del fiume Tronto, il protagonista che ha scavato questa vallata. Il Tronto. Il fiume che ti accompagna dal mare e ti porta in montagna. Che in realtà nasce dalla montagna e arriva al mare, ma per un viandante è più facile lo conosca alla foce, quando raggiunge il Mar Adriatico. E lo incontri lì, a separare le Marche dall’Abruzzo, in quella città marittima che prende il nome di San Benedetto del Tronto e che rappresenta anche l’uscita autostradale – dell’A14 – per immettersi sulla Via Salaria. Il Tronto lo ritrovi ancora lungo la via. L’uscita per Civitella del Tronto, in territorio teramano, e lungo la Salaria inoltrata nei cartelli che indicano comuni per molto tempo anonimi alle cronache: Arquata del Tronto e Pescara del Tronto. E chi le conosceva queste due località prima di percorrere per l’ennesima volta la Via Salaria? Ecco, fu per puro caso che le visitai. Ma per il solo caso che la Salaria resta una delle vie più belle d’Italia e qualsiasi cosa conservi lungo di essa allora vale la pena conoscerla. 

20 Marzo 2016, ore 11:15
Il bar in mezzo la Via Salaria
 
In ogni mio viaggio verso l’Umbria ho la stessa abitudine: fermarmi nel bar in mezzo la Via Salaria. Detto così vi starete immaginando la Via Salaria con un solo bar nel mezzo in un deserto privo di attività commerciali. In realtà non è così. Del bar di cui vi sto parlando non conosco l’esatta posizione geografica, non ricordo come sia fatto e quantomeno a quale minuto di marcia lo si possa incontrare. So solo che quando mi si presenta davanti lo riesco a riconoscere e sono costretto a fermarmi. E una volta rivisto mi ricordo il tutto: la costruzione spartana, l’arredo improponibile, la fila al bagno prima dell’uscita col CAI, il caffè corretto all’anisetta. Quel bar negli ultimi anni ha rappresentato il punto di sosta di tutte le mie uscite verso l’Umbria e ogni qual volta si doveva percorrere la Salaria, una sosta lì era d’obbligo.

Nell’ultima mia uscita in Umbria, con tappa obbligatoria nel bar in mezzo alla Via Salaria, ho deciso di annotarmi: a) il nome del bar in mezzo alla Via Salaria, b) la sua geolocalizzazione. Il bar prende il nome di “Bleu Bar” e si trova a ridosso di una stazione di carburanti, in uno spazio sovradimensionato per quella strada. Nella frazione di Trisungo, dove vivono pochissimi abitanti e le case non vengono più costruite da oltre quarant’anni. Il bello di questa frazione è quello del farsi notare non soltanto per le case in pietra, ma perché si trova a ridosso della strada e rappresenta un punto di riferimento per quelli che scelgono questa via. Una specie di mansio, o in termini contemporanei area di sosta, dove il viandante è costretto a fermarsi al richiamo di un caffè dopo chilometri di natura e strada asfaltata. E noi siamo fra quelli. Quindi eccoci all’interno del “Bleu Bar”, il bar in mezzo alla Via Salaria in cui faccio tappa da anni, per gustarci un caffè. La macchina rimane fuori dalla vetrina, mentre un signore sulla cinquantina senza grembiule e in felpa lava le tazzine e dialoga in ascolano con le poche persone sedute in caffetteria. Lui è lo stesso che mi ha preparato il caffè ed è lo stesso che mi ha fatto un invito: “se salite su ad Arquata (senza specificare “Del Tronto”), hanno aperto la rocca e altri monumenti. Ci sono le giornate del FAI”. Se l’invito mi viene fatto dal gestore del bar che ritengo essere il punto di riferimento sulla Via Salaria, allora vale la pena seguirlo. Poi metto in relazione le parole: Arquata, rocca, monumenti, FAI. E andiamo a vedere questo borgo che si è rifatto il look per l’occasione! 

20 Marzo 2016, ore 11:30
Arquata del Tronto

Lasciamo il “Bleu Bar” (da oggi ricorderò il nome), e saliamo dal bivio di Trisungo per Arquata del Tronto, sulla SP89. Qualche curva ed eccoci a ridosso del paese, ma non vi possiamo entrare. È stato tutto transennato e degli addetti in pettorina (gente comune prestata alla riuscita dell’evento), ci invitano a parcheggiare in spazi di fortuna e a proseguire a piedi. Così lo spazio fra i cassonetti risulta perfetto per il parcheggio e il proseguo a piedi è una continua scalata verso Arquata del Tronto, posta alla fine di una strada irta. Almeno il panorama sottostante, con protagonista la Via Salaria, richiama l’attenzione e alleggerisce il peso della marcia. Ma fin quando non si arriva al comando dei carabinieri, ossia alle mura cittadine, rischi di digerire anzitempo il caffè appena bevuto al “Bleu Bar”. Poi ti ritrovi le prime costruzioni, edificate sopra le mura. Sono alte e spioventi, dalle facciate intonacate e con quella patina storica che le rende ancor più interessanti. Quindi una serie di archetti, più decorativi che strutturali, a scandire la facciata di una muratura che si dirama verso il tornante finale, quello da cui comincia il centro abitato. Se prima si avevano le prime architetture sulla sinistra, adesso si hanno gli ingressi delle abitazioni, i primi passaggi sotto gli archi e le prime indicazioni per le poste. Ci si ritrova davanti un palazzo che ospita la Casa Museo e le stesse poste (dettaglio inutile lo so, ma la scritta gialla risalta) e da cui si viene immessi in una via che come in un imbuto si allarga verso la piazza principale. 

La piazza principale prende il nome di Umberto I, ha una forma irregolare ed è il punto di incontro fra due vie. Sulla destra è caratterizzata da una cortina di palazzi a schiera di altezza variabile, dagli ingressi simmetrici a doppia rampa, con uno solo possedente dei balconi. Ma il vero elemento architettonico simbolo della piazza è la torre campanaria che si pone nel mezzo fra il palazzo dei balconi e un altro a pochi metri di distanza. È bucata al pian terreno e permette il passaggio verso un vicolo sottostante. Conserva un bassorilievo marmoreo che custodisce i nomi delle persone morte per la patria, oltre a quattro aquile bronzee a svettare. Quindi l’orologio e le campane. L’altro palazzetto che confina con la torre campanaria ha un proprietario di casa amante dei fiori, o almeno è quello che si direbbe osservando i tanti gerani curati tenuti in piccoli vasi.

Arquata del Tronto, Piazza Umberto I

Arquata del Tronto, Piazza Umberto I


Per l’occasione la piazza è chiusa al traffico e la giornata del FAI ha fatto sì che tutti si organizzassero per accogliere al meglio i visitatori. Così in basso alla torre campanaria è stata allestita una grande tenda da campo in cui potessero essere ospitati gli stand gastronomici per la valorizzazione dei prodotti locali. Oltre a fungere da punti di assaggio, si possono anche acquistare a prezzi vantaggiosi. Dopo il caffè nel bar in mezzo alla Via Salaria, il ciauscolo – salume tipico della zona – mi è sembrato un tantino diverso dal solito. Ma non potevo rifiutare la gentilezza di una signora che me lo offriva sorridendomi. Assieme alla vetrina del cibo, quella dell’arte. La Pro Loco si è attrezzata con un banchetto e rilasciava delle brochure illustrative. “Se proseguite verso Via Gallo incontrerete dei ragazzi. Vi faranno vedere il crocifisso ligneo. Poi continuate per la Rocca”. E nel frattempo anche alla responsabile della Pro Loco era arrivato dal cibo dallo stand gastronomico. 
Ci immettiamo su Via Gallo, per intenderci la via che entra su Piazza Umberto I. Segue l’andamento del terreno e inizialmente è in discesa, successivamente in salita, sempre più ripida. Sulla sinistra c’è una statua in pietra raffigurante una donna con un vaso fra le mani, sulla destra un palazzo storico con una facciata curva che segue la forma della strada. Frontalmente – e questo lo si nota a distanza – un arco colorato di giallo tenue completamente decorato mette in risalto due finestrelle sovrastanti. Oltrepassato quell’arco troviamo ad attenderci con lo sguardo una serie di bambini, accompagnati da due ragazze più grandi. Ci attendono, probabilmente siamo gli unici in quel momento a passare di lì. Passo dopo passo con cui ci avviciniamo, loro si mettono sull’attenti quasi a volerci accogliere al meglio. E quando arriviamo qualcuno di loro esclama. “Ciao, volete vedere il crocifisso di Arquata?”.




Sorridiamo e ci lasciamo trasportare dall’atmosfera. Veniamo “affidati” alle due ragazze più grandi che avranno il compito di illustrarci al meglio le caratteristiche di un crocifisso ligneo custodito qui. “Prima volta ad Arquata?”, mi domandano, e dopo aver constatato la mia completa ignoranza sul borgo ci fanno entrare nella Chiesa dell’Annunziata, posta nel mezzo del centro storico. Sulla chiesa non ci danno grandi informazioni, ma ci tengono a dire che è stata chiusa per molti anni e che appartiene a una famiglia importante di Arquata del Tronto. Al suo interno ci fanno osservare il crocifisso ligneo posto sulla destra dell’altare. È del duecento ed è stato intagliato e dipinto da due monaci benedettini, tali Raniero e Bernardo come si può leggere dall’incisione. Il crocifisso è unico nel suo genere e questa particolare fattura artistica lo rende molto pregiato. Non rubiamo ulteriore tempo e non appena usciamo i bambini preparano un piccolo discorso generale su Arquata. Ognuno di loro si è preparato una parte da dire. Non è che ci si capisca più di tanto, ma almeno questa circostanza ci ha regalato un momento del tutto speciale che forse non ricapiterà mai più e ci fa capire che qualsiasi forma di valorizzazione turistica di un luogo debba partire dall’impegno collettivo della cittadinanza. Anche una piccola scolaresca stava facendo la sua parte. D’altronde in un borgo non ci torni perché hai ricevuto delle informazioni precise, ma perché ti hanno trattato al meglio e fatto sentire ospite. Perciò alla fine di tutte quelle piccole voci la storia di Arquata restava un tabù, ma almeno eravamo tutti più contenti.

Arquata del Tronto



In diagonale rispetto la Chiesa dell’Annunziata è presente un importante palazzo del borgo. Al suo interno il FAI ha allestito un banchetto in cui si vendono gadget, fra cui le spillette. “Volete entrare? C’è la copia della Sacra Sindone di Torino”. Preferiamo di no, anche perché si sta facendo tardi e dobbiamo raggiungere per pranzo l’Umbria. Ma proseguiamo verso la Rocca che resta per me la cosa più importante da vedere del borgo. Si percorre un tratto di strada che diviene sempre più irto e che dal borgo abitato entra nel bosco sovrastante. Le cortine di edifici cessano di esistere e il panorama sui Sibillini si apre dietro una staccionata in legno. Delle panchine invitano alla sosta, ma chi si ferma è perduto. E la mia pancia comincia ad aver fame (quell’assaggio di ciauscolo mi ha aperto una voragine nello stomaco). Dopo alcuni tornanti ecco la rocca. 

20 Marzo 2016, ore 12:00
Il simbolo di Arquata del Tronto: la Rocca

L’ingresso alla Rocca, o meglio al cortile della Rocca, è anticipato da un arco in pietra che immette in un giardino con sedute e tavolate. Vengono sfruttate in queste occasioni e la limpida giornata di fine inverno (e imminente primavera) ha fatto sì che fossero prese d’assalto. A sedervi sono per lo più persone legate all’organizzazione, fra cui un signore (probabilmente il responsabile da come ci si presenta), e altri col panino fra le mani. Fa segno a un bambino sui dieci anni, con occhiale e capello lungo castano, di farci da guida prima dell’ingresso nella rocca. E così questo giovane ci prende in custodia per farci conoscere il simbolo del paese. Lo seguiamo e ci accorgiamo che gli altri suoi coetanei sono davanti l’ingresso a mangiarsi – anche loro – un panino. Ci spiega le prime informazioni sulla Rocca e accenna alcune informazioni sulla Via Salaria. La sua sembra più che una esposizione da guida turistica una interrogazione scolastica ma apprezziamo come ci metta il massimo impegno non sentendo il disagio di parlare con persone più grandi di lui.

Dopodiché veniamo scaricati a un ragazzo sui diciotto e il giro entra nel vivo. Sotto la sua guida entriamo nel cortile della rocca, chiuso con una discutibile copertura in ferro e vetro, e ci vediamo alcune delle immagini fotografiche riguardanti Arquata del Tronto. Lungo le pareti sono esposti attrezzi di lavoro e prodotti della tradizione contadina, fra cui una pagnotta di pane sfornata nella mattinata (sarà diventata più dura delle pietre della rocca). Prime informazioni sulla rocca: è una fortificazione del duecento, tipica dell’appennino umbro marchigiano. Fu costruita per volere dello Stato Pontificio per ostacolare l’ascesa di Federico II ed è formata da un primo torrione di 12 m, con forma esagonale, collegato a una cinta muraria. L’altra torre, alta ben 24 m e con base quadrata, si trova nel versante nord e non possiede scale al suo interno. Certo, oggi sono state inserite per il flusso dei turisti, ma al tempo la si risaliva con delle funi appese dall’alto. Anche l’ingresso è a un’altezza non casuale: il tutto serviva in caso di attacchi nemici, per la difesa delle torri. Prima dell’accesso alla sommità della torre c’è un solaio, alto poco più di un metro. Ci si cammina chinati e conduce in un passaggio che porta all’esterno: è caratterizzato da una scalinata regolare fino all’ultimo scalino, con il cambio di pedata che doveva far inciampare l’invasore.

Arquata del Tronto rocca
Arquata del Tronto, l'interno della Rocca

Arquata del Tronto
Arquata del Tronto, l'interno della Rocca


La cosa più bella della Rocca di Arquata del Tronto non sta nella sua fattura artistica, ma nella vista che offre. Domina e sovrasta l’intera valle e permette di osservare quel filo nero di asfalto lontana nell’orizzonte: è la Via Salaria, trafficata in quell’ora di punta, pronta a riaccoglierci per condurci fino in Umbria. Lasciamo la rocca e torniamo fra le vie del borgo questa volta senza una precisa idea di visita, facendoci trasportare dalle emozioni. Arriviamo davanti la casa che ospitò Giuseppe Garibaldi nel 1849, quando era in viaggio alla volta di Roma, assieme ad altre persone di spicco del tempo fra cui Tonino Bixio. Una targa ricorda il passaggio. Vediamo le anonime vie del borgo, alcune delle quali con una particolare conformazione che unisce il naturale all’artificiale. Per esempio una portico scavato nella roccia, molto particolare e suggestivo, quasi del tutto in stato di abbandono.


20 Marzo 2016, ore 12:40
Essersi persi, o aver trovato?

Risalendo verso Piazza Umberto I veniamo fermati da due signori. Hanno una bottiglia di vino in mano e dei bicchieri con se. “Ragazzi volete assaggiare un po’ di vino?”. Rifiuto, per poi accettare alla seconda proposta. Non capivo tutta quella gentilezza. Nessuno ci conosceva, eravamo lì per puro caso, ma era come se tutti provassero a lasciarci il miglior ricordo possibile di Arquata del Tronto. E noi non potevamo far altro che farci trasportare da quella onda di positività. Al termine del vino, storditi dalla fame, abbiamo salutato il borgo. Un arrivederci. Abbiamo ripreso la macchina e siamo ripartiti alla volta dell’Umbria. Ma gli imprevisti ti fanno prendere strade diverse.



E la strada diversa era quella che riportava sulla Salaria. Dovevamo svoltare a sinistra, abbiamo proseguito dritto. Il risultato è stato l’accorgersi di esserci persi dopo un paio di chilometri di marci. M non era un problema, bastava fare inversione e ripercorrere la strada a ritroso. Trovo lo spazio adatto per la manovra e vado il cambio del senso di marcia. Ma nello svoltare mi accorgo di un qualcosa. Un cartello. Indica la presenza di una casa museo, una certa Villa Papi. Vuoi che un amante dell’arte non colga l’occasione al volo? 

20 Marzo 2016, ore 12:55
Villa Papi, un luogo dell'arte

Parcheggiamo nell’esatto punto in cui si era completata l’inversione di marcia ed entriamo in quella villa sul ciglio della strada. Premesso: c’è la villa, divisa su tre-quattro livelli, e un grande parco intorno a essa. In tutto ciò l’accesso al pubblico è consentito ma nessuno sembra essere presente. Scendiamo direttamente nel parco e ci accorgiamo della presenza di sculture distribuite lungo tutto il viale. Esse costeggiano il muraglione della statale e accompagnano il visitatore fino all’interno del parco sottostante, con alcune dinamiche che possono essere utilizzate dalle persone per godersi un momento di felicità. Come ad esempio una sedia girello, con un perno che le permette di roteare. Continuiamo a scendere ed eccoci in un teatro naturale, costituito da gradoni regolari, in cui le piantagioni svolgono una funzione decorativa. Ma tutto sembra lasciato in abbandono. Come se un tempo quelle sculture costituissero un’oasi felice quasi del tutto decaduta. Ma una motivazione c’era. D’un tratto qualcuno ci richiama da lontano.

“State, state pure”. È un giovane, che scende verso il parco. Lasciamo il piccolo teatro nel parco e risaliamo verso lui. “Purtroppo la villa e il parco sono ancora chiusi, stiamo per riaprirli al pubblico”. Ci dice prima di presentarsi. Si chiama Gregorio, avrà una trentina d’anni e vive qui. “Avete visto le sculture?”, ci domanda mentre ci prende sotto sua custodia. Ci porta all’interno di una costruzione nel mezzo del parco, su un vialetto che porta fino al piano inferiore della villa. “Accomodatevi pure”. E ci sediamo nella tavolata in legno che riempie la stanza. Tutto il mobilio contribuisce a uno stile rustico che ci piace. Ma in quel momento una domanda mi assilla: perché sono seduto all’interno di una stanza, dopo essere entrato in una villa con parco senza permesso, e dove è andato il giovane ragazzo appena incontrato? Non lo so, ma un qualcosa mi tiene incollato sulla sedia, come se mi trovassi a mio agio nella situazione.

E il ragazzo torna assieme a suo padre, un uomo sulla sessantina con il capello grigio e gli occhiali. Ci saluta nel modo più cordiale e si viene a sedere nel tavolo, a capotavola. “Avete visitato la villa nel momento peggiore, siamo ancora chiusi”. Annuiamo. “Tutto quello che vedete qui è opera di un’artista e che fra poco dovrebbe essere qui. Ma da dove venite?”. Rompiamo il ghiaccio e ci lasciamo trasportare dal momento. Si parla del nostro viaggio verso l’Umbria, della casuale conoscenza di Arquata del Tronto. Ma anche degli studi e delle cose in comune. Ne esce fuori un piccolo dialogo interessante. E continuo a pensare a tutta la strana situazione in cui mi sto trovando. Per riassumerla: devo andare in Umbria, mi sono fermato al bar di fiducia sulla Salaria, ho ricevuto l’invito per salire ad Arquata, ho sbagliato strada, ho fatto inversione di marcia davanti a una villa, e ora sono all’interno di quella villa a parlare con due sconosciuti, molto gentili, ma sconosciuti. “Gregorio vai a prendere del pane e del prosciutto”, ordina il padre al figlio.

Quando arriva il pane con il prosciutto il padre si alza da tavola e lo taglia sulla credenza. In quel momento entra una persona, aspetto all’apparenza trasandato, con un giubbino blu e un cappello. Ha la barba incolta bianca e probabilmente ha una settantina d’anni. “Oh, ecco, è arrivato Diego! Questi giovani sono in visita ad Arquata”. E il signor Diego si presenta a noi. “È lui l’artista che ha realizzato tutte le opere qui fuori”. Adesso siamo in una tavolata con un giovane, suo padre che prepara dei panini e un’artista che ha plasmato tutto quello che ci circonda. 

20 Marzo 2016, ore 13:15
L'immanentismo e il concetto di serendipità

Ma chi è Diego Pierpaoli? È un’artista di Arquata del Tronto che nel 1973, assieme ad altri nove artisti, scrisse il manifesto del Gruppo Immanentista. La produzione artistica li portò a esporre in tutta Italia e ad avere una serie di pubblicazioni sull’immanentismo. Uno di questi saggi ebbe la prefazione scritta – addirittura – da Giulio Carlo Argan, uno dei più famosi storici dell’arte. Su quella forma d’arte non c’ho capito più di tanto, ma è interessante ascoltare aneddoti di vita dell’artista. Conoscenze importanti, contatti importanti, eppure una produzione legata al territorio. Assieme a noi si gusta il pane con il prosciutto e del vino. Ci viene offerto anche un particolare liquore locale, di cui non ricordo il nome.

E alla fine di tutto ripartiamo. Salutiamo i nostri nuovi amici con la promessa di tornare un giorno. Lieti di quella esperienza appena vissuta, felici del trattamento ricevuto. Un concetto che si esprime col nome di serendipità: cerchi un qualcosa, ne trovi un’altra che ti rende felice. E forse la stessa Arquata del Tronto è stata una meta non cercata che ci ha regalato un momento da incorniciare. Tutto è sembrato spontaneo e delicato, mai nulla ha sfiorato il noioso o il banale. Ogni situazione, pietra, persona, ha reso una anonima mattinata di fine inverno degna di essere ricordata. E così la mia sosta lungo la Salaria, da oggi in poi, non si chiamerà più “Bar in mezzo la Via Salaria”, ma Arquata del Tronto.

Diego Pierpaoli, artista immanentista
Villa Papi

Villa Papi, il teatro

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