“La vita umana non è altro che un gioco della follia”,
scrisse Erasmo da Rotterdam di ritorno da un viaggio in Italia.
Contemporaneamente, a qualche chilometro di distanza, un principe innamorato
trasformò la sua follia in qualcosa di tangibile. Ma lui non era in grado di
scolpire, dipingere o progettare. Tuttavia scelse gli uomini migliori sulla
piazza, come il Vignola e il Pirro Ligorio. Mani abili, per realizzare il suo
desiderio: quello di un grande giardino, ai piedi del borgo di Bomarzo, al
tempo Polimarzium, dedicato alla sua amata Giulia Farnese (alt non confondetela
con quella più famosa). Seguì i lavori, e pretese un gruppo scultoreo di
creature, giganti e mostri ricavati dalla pietra. Il suo doveva essere al
contempo una prova d’amore (strano, perché all’epoca godeva del privilegio dello
“Jus primae noctis”) e uno sfogo della vena artistica, del personale, della
maniera personale. Ingredienti come la mitologia e l’alchimia si mescolavano
fra la fitta vegetazione di un terreno fuori dal borgo. Fu scelto il percorso
di passeggio e di vita, e vi furono poggiate le sculture. Chissà se la bella
Giulia abbia apprezzato il regalo del compagno. Sicuramente è rimasta legata per
sempre in questo giardino, chiusa nella tomba del tempietto a lei dedicato.
Condivide uno spazio preso in prestito dall’architettura romana assieme a una
colonia di pipistrelli, ma se ne stanno li buoni senza romperti le scatole.
Torniamo al nostro principe, e ai suoi collaboratori. Pirro Ligorio scolpì
tanti animali. Per esempio un drago con un leone, un elefante che avvinghia un
guerriero romano con la sua proboscide oppure una grande tartaruga. E poi c’è
il Pegasus, sulla quale si può salire, sfidando il rischio del non scivolare,
il tutto per una diversa fotografia. Anche l’architettura si ritaglia uno
spazio. Non solo col tempio, ma anche con la casa pendente. Sembra una classica
casa italiana del cinquecento, con tanto di basamento bugnato, pietre cantonali
e finestra architravata. Se non fosse che pende, di diversi gradi verso l’interno.
Il senso di vertigine nell’attraversare la sua sala, provoca strane sensazioni,
fra cui lo spaesamento. L’effetto è ben riuscito e la casa se ne resta lì come
la più ricercata attrazione per chi visita il parco. Ed infine l’Orco,
riconoscibile per la sua grande bocca dai due denti e la lingua che in realtà è
un tavolo all’interno. Immette in una sala e se non fosse che esternamente
assume la fisionomia di un mostro o di una scimmia, non riscontrerebbe
differenze con altre abitazioni. E
ancora Ercole e Caco, una sirena e sculture sparse. Una riporta il simbolo
degli Orsini cioè un orso che stringe una rosa al petto.
Nel giardino si fermarono grandi nomi. Nel 1948 Salvador Dalì si fece
immortalare in un video. Osservava con cura le opere, le contemplava e sempre
con quell’aria schietta. Oppure il regista Michelangelo Antognoni che girò nel
1950 un documentario denominato “la villa dei mostri”, utilizzando un linguaggio
ironico per descrivere l’insieme. Bruno Zevi, storico dell’architettura, parlò
di “ingranaggio di sensazioni”. I tre nomi citati conobbero il parco nel
periodo post guerra. A differenza di sessant’anni fa, oggi il parco è a portata
di tutti. Sono state tagliate le piantagioni che sovrastavano le sculture.
Adesso gli asini pascolano altrove e addirittura è stato costruito un centro. A
Bomarzo fra Tevere e Viterbo, fra campagna e paese, fra il reale e la follia.
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Orco |
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Tempietto |
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Tempietto |
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Elefante |
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Elefante |
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Drago |
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Proteo Glauco |
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Ercole e Caco |
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Casa pendente |
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