Reportage "Valle dell′Orfento"
Reportage in gara per il premio "Festival della letteratura di Viaggio".
Piazzamento: finalista.
- Riccardo Pandolfi (giornalista, Radio Rai)
- Marco Berchi (giornalista, Il Messaggero)
- Tommaso Giartrosio (giornalista e scrittore)
Piazzamento: finalista.
"Negli ultimi secoli
il rapporto fra l’uomo e la natura è stato messo in discussione. Tuttavia può
anche succedere che nel contrasto con un intervento invasivo dell’uomo, la
natura possa apparire ancora più bella.
La forza corrosiva dell’acqua si è spinta sino a questo
paesaggio forestale, ha consumato la roccia, ha scelto un letto nella fitta
vegetazione e ha sciolto le dure pareti sedimentarie fino a levigare la loro
conformazione.
Si è adagiata fra le insenature rallentando il suo scorrere, sino a permettere la nascita della vita. E proprio in queste piscine naturali che la flora si specchia donando quel colore verdastro che ben si mimetizza nell’ambiente. È così che è nata e che forse continuerà ad evolversi la Valle dell’Orfento.
La luce solare non riesce ad oltrepassare le infinite foglie lasciando l’ambiente in una sua atmosfera buia e a volte spettrale. Filtra, soltanto nelle radure, oppure rimbalza sulla chiara roccia illuminando a tratti lo spazio. In questi punti cangianti la vita sembra riattivarsi: cambiano le piantagioni, si arricchisce la fauna e i tanti esseri viventi del piccolo mondo escono dalle loro tane, si affacciano alla luce e vivono la loro giornata. Non è difficile incontrare lungo il percorso una vipera arrotolata su se stessa, una rana, oppure una mantide religiosa poggiata su un rovo. Ed è fra quelle lunarie ed orchidee che si sprigionano i profumi primaverili, scacciando l’odor di acque sulfuree delle terme vicine.
Ma uno scheletro dalle esili geometrie, opera dell’uomo, sovrasta l’intera valle, ombreggiandola ed alterandola. È un ponte in cemento armato, costruito per favorire il flusso dei traffici del vicino paese di Caramanico. Si innalza ad un centinaio di metri dalle acque del torrente e si va ad incastrare sulle due pareti opposte del canyon. La sua presenza rischia di compromettere l’equilibrio del luogo, soprattutto nell’immagine d’insieme. Questa scultura è da considerare la linea separatoria di due mondi opposti che vivono in simbiosi: quello plasmato dalla natura, e quello ideato dall’uomo. E non per caso al di sopra del ponte transitano le vetture su un manto nero asfaltato; mentre al di sotto del ponte l’unico manto nero è quello dei balestrucci, uccelli simili alle rondini che hanno ricavato i loro nidi sul cemento bianco. Al bordo del parapetto comincia il facile sentiero, alleggerito da scalette in terra che conducono al fiume. Scendono fra la fitta vegetazione della faggeta, che tanto è folta da impedire di guardare oltre i suoi rami, invitandoti a gettare ancora una volta l’occhio sulla arcata centrale del ponte, ben illuminata dal sole. E quando sulla balaustra in legno compaiono i primi licheni e le felci si fanno largo fra i rovi, sopraggiunge l’ombra che ti avvolge nella sua atmosfera. Gli ultimi passi prima di ritrovarsi nella forra. Diventa tutto umido, anche il legno dei ponticelli che guadano il fiume permettendoti lo spostamento fra le bancate, mentre al di sotto di quegli assi le onde creano danze vorticose fra le pietre e accompagnano la marcia. Diceva un abruzzese: “L'onda sciacqua, sciaborda, scroscia, schiocca, schianta, romba, ride, canta, accorda, discorda”. Non sappiamo se D’Annunzio abbia mai attraversato la Valle dell’Orfento eppure il suo aforisma è la fotografia di quelle acque.
Il sentiero si inoltra nella valle per altre ore di cammino, sempre lì al fianco del torrente, ospitando i pochi escursionisti giunti sin qui per trascorrere una giornata differente, magari con le loro famiglie, magari per mettere alla prova il loro coraggio (e le basse temperature) gettandosi fra le acque dell’Orfento. Chissà forse qualcuno di loro ha avvistato la lontra, che per anni è stata la regina della valle, prima che la mano dell’uomo ne abbia compromesso l’habitat. Ultimamente grazie ad interventi mirati, questa specie animale viene controllata e salvaguardata.
Il paesaggio si apre, la roccia lascia spazio alla vegetazione, l’ombra alla luce. Termina il canyon, diminuisce il fascino. L’ultima immagine suggestiva, la riserva il ponte in cemento armato al tramonto: ponendosi nella sua metà e affacciandosi sulla valle appena visitata, un gioco di ombre disegnerà sul manto verde la figura di una lepre che dall’alto di una roccia si affaccia sul ponte stesso, sottolineando, ancora una volta, la vicinanza e allo stesso tempo la lontananza, fra il mondo naturale e quello artificiale.
E forse è vero, che Il luogo rispecchia esattamente l’immagine dell’Abruzzo: una regione che da un lato si mette in mostra per essere amata e apprezzata dal visitatore, dall’altra si nasconde nel verde dei suoi parchi, forse per protegge quelli che sono i luoghi più suggestivi, da considerare cellule sane in un apparato fin troppo danneggiato negli ultimi anni. E così anche la Valle dell’Orfento è nascosta. Se nessuno te la indica non la vai a cercare. Eppure è rimasta per secoli così come la vediamo oggi, così come la vedeva un viaggiatore come Celestino V, che la scelse per ricavarne uno degli eremi più inaccessibili che si ricordino. La mano dell’uomo, con quel ponte, non è riuscita a mutare il paesaggio, bensì ha sottolineato quanto la natura possa essere il solo, vero ed unico architetto del sublime."
Si è adagiata fra le insenature rallentando il suo scorrere, sino a permettere la nascita della vita. E proprio in queste piscine naturali che la flora si specchia donando quel colore verdastro che ben si mimetizza nell’ambiente. È così che è nata e che forse continuerà ad evolversi la Valle dell’Orfento.
La luce solare non riesce ad oltrepassare le infinite foglie lasciando l’ambiente in una sua atmosfera buia e a volte spettrale. Filtra, soltanto nelle radure, oppure rimbalza sulla chiara roccia illuminando a tratti lo spazio. In questi punti cangianti la vita sembra riattivarsi: cambiano le piantagioni, si arricchisce la fauna e i tanti esseri viventi del piccolo mondo escono dalle loro tane, si affacciano alla luce e vivono la loro giornata. Non è difficile incontrare lungo il percorso una vipera arrotolata su se stessa, una rana, oppure una mantide religiosa poggiata su un rovo. Ed è fra quelle lunarie ed orchidee che si sprigionano i profumi primaverili, scacciando l’odor di acque sulfuree delle terme vicine.
Ma uno scheletro dalle esili geometrie, opera dell’uomo, sovrasta l’intera valle, ombreggiandola ed alterandola. È un ponte in cemento armato, costruito per favorire il flusso dei traffici del vicino paese di Caramanico. Si innalza ad un centinaio di metri dalle acque del torrente e si va ad incastrare sulle due pareti opposte del canyon. La sua presenza rischia di compromettere l’equilibrio del luogo, soprattutto nell’immagine d’insieme. Questa scultura è da considerare la linea separatoria di due mondi opposti che vivono in simbiosi: quello plasmato dalla natura, e quello ideato dall’uomo. E non per caso al di sopra del ponte transitano le vetture su un manto nero asfaltato; mentre al di sotto del ponte l’unico manto nero è quello dei balestrucci, uccelli simili alle rondini che hanno ricavato i loro nidi sul cemento bianco. Al bordo del parapetto comincia il facile sentiero, alleggerito da scalette in terra che conducono al fiume. Scendono fra la fitta vegetazione della faggeta, che tanto è folta da impedire di guardare oltre i suoi rami, invitandoti a gettare ancora una volta l’occhio sulla arcata centrale del ponte, ben illuminata dal sole. E quando sulla balaustra in legno compaiono i primi licheni e le felci si fanno largo fra i rovi, sopraggiunge l’ombra che ti avvolge nella sua atmosfera. Gli ultimi passi prima di ritrovarsi nella forra. Diventa tutto umido, anche il legno dei ponticelli che guadano il fiume permettendoti lo spostamento fra le bancate, mentre al di sotto di quegli assi le onde creano danze vorticose fra le pietre e accompagnano la marcia. Diceva un abruzzese: “L'onda sciacqua, sciaborda, scroscia, schiocca, schianta, romba, ride, canta, accorda, discorda”. Non sappiamo se D’Annunzio abbia mai attraversato la Valle dell’Orfento eppure il suo aforisma è la fotografia di quelle acque.
Il sentiero si inoltra nella valle per altre ore di cammino, sempre lì al fianco del torrente, ospitando i pochi escursionisti giunti sin qui per trascorrere una giornata differente, magari con le loro famiglie, magari per mettere alla prova il loro coraggio (e le basse temperature) gettandosi fra le acque dell’Orfento. Chissà forse qualcuno di loro ha avvistato la lontra, che per anni è stata la regina della valle, prima che la mano dell’uomo ne abbia compromesso l’habitat. Ultimamente grazie ad interventi mirati, questa specie animale viene controllata e salvaguardata.
Il paesaggio si apre, la roccia lascia spazio alla vegetazione, l’ombra alla luce. Termina il canyon, diminuisce il fascino. L’ultima immagine suggestiva, la riserva il ponte in cemento armato al tramonto: ponendosi nella sua metà e affacciandosi sulla valle appena visitata, un gioco di ombre disegnerà sul manto verde la figura di una lepre che dall’alto di una roccia si affaccia sul ponte stesso, sottolineando, ancora una volta, la vicinanza e allo stesso tempo la lontananza, fra il mondo naturale e quello artificiale.
E forse è vero, che Il luogo rispecchia esattamente l’immagine dell’Abruzzo: una regione che da un lato si mette in mostra per essere amata e apprezzata dal visitatore, dall’altra si nasconde nel verde dei suoi parchi, forse per protegge quelli che sono i luoghi più suggestivi, da considerare cellule sane in un apparato fin troppo danneggiato negli ultimi anni. E così anche la Valle dell’Orfento è nascosta. Se nessuno te la indica non la vai a cercare. Eppure è rimasta per secoli così come la vediamo oggi, così come la vedeva un viaggiatore come Celestino V, che la scelse per ricavarne uno degli eremi più inaccessibili che si ricordino. La mano dell’uomo, con quel ponte, non è riuscita a mutare il paesaggio, bensì ha sottolineato quanto la natura possa essere il solo, vero ed unico architetto del sublime."
Giudici che hanno visualizzato il testo:
- Francesco Cabras (fotografo e regista)
- Antonio Politano (fotografo National Geographic)
- Roberto Caramelli (giornalista, La Repubblica)- Riccardo Pandolfi (giornalista, Radio Rai)
- Marco Berchi (giornalista, Il Messaggero)
- Tommaso Giartrosio (giornalista e scrittore)
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